E’ nato ad Augusta, provincia di Siracusa, ma come per pochi altri la definizione di cittadino del mondo è estremamente appropriata per definire Roy Paci: assieme ai suoi Aretuska tra gli ospiti più attesi della finalissima di Festivalbar di venerdì prossimo. Non che la Sicilia non sia importante nel suo percorso artistico. Anzi, Paci è orgogliosamente siciliano. Ma è il suo modo di essere, di suonare, di vivere che non ha confini. A dimostrarlo è anche Suonoglobal, il suo ultimo cd realizzato con gli Aretuska – il gruppo che ormai da tempo è la sua fidata spalla – a cui hanno collaborato anche Manu Chao, Pau dei Negrita, CorVeleno ed Enriquez dei Bandabardò. Ecco la nostra intervista.

Paci, quali sono gli ingredienti dell’ultimo cd?
“C’è la mezcla, la tradizione, la modernità, i suoni latini e caraibici, il rap, il jazz e per la prima volta tante parole. Parole che per me era importante portare alla luce. Ho scoperto recentemente di avere una voce con cui esprimermi senza timore. E attorno a questo ho costruito l’intero album”.

E’ un disco che sfugge a ogni etichetta…
“Sono sempre stato così, non è mai stato facile etichettami, chiudermi in uno stile. Anzi, questo disco mi ha permesso di uscire da un clichè: quello del divertimento, dello ska, del look da gangster americano, del trombettista funambolo. Credo di essere qualcosa in più di questo e spero che il mio nuovo album lo dimostri”.

Lei che ha suonato con tantissimi, da Capossela a Manu Chao, come si sente ora che in veste solista ha raggiunto il pieno successo?
“Da quando con un po’ di coraggio ho lasciato la band di Manu Chao con cui suonavo, ho investito molto su me stesso. Oggi, penso di potermi permettere di suonare e mettere insieme tutto quello che più amo e più mi appassiona”.

Quale fu il primo disco che le venne regalato?
“Il mio primo disco me lo regalò mio padre. Era un album jazz di Roy Elridge. Avevo 14 anni ed ero già il trombettista più in vista di Augusta”

E degli esordi, cosa ricorda volentieri?
“Quando me ne andai dal mio paese, scoprendo che di trombettisti bravi ce ne erano molti e che il jazz non era tutto. E’stato un bene, perché così mi sono abituato a convivere con i colleghi e a imparare tanto dai migliori”.

(05 settembre 2007)