MATTAFIX: L'INTERVISTA
Marlon Roulette passa da parole serie e accorate a un sorriso aperto mentre mi chiede spiegazioni del "V Day" di Beppe Grillo nel giro di appena dieci minuti. Marlon, paroliere e autore delle musiche con Preetesh Hirji dei Mattafix, duo londinese arrivato in cima alle classifiche un paio di anni fa con Big city life, è estremamente orgoglioso del loro nuovo album Rhythm and hyms.
In uscita a novembre, il disco è stato preceduto dal singolo Living Darfur, accompagnato da un video finanziato da Mick Jagger e girato nelle zone di guerra del Ciad. Rhythm and hyms segna una svolta nettamente politica nella loro carriera. Con un fervore d'altri tempi, parla e incita nei testi a fare qualcosa per il Darfur: la regione africana in cui, dal 2003, i miliziani governativi stanno decimando la popolazione locale. Non è la prima volta che la musica si occupa di questa tragedia. Solo pochi mesi fa, è stato pubblicato un disco di cover di John Lennon in cui, sotto l’egida di Amnesty International, alcuni tra i più grandi artisti hanno prestato la loro voce per donare fondi a favore di queste popolazioni. L’intento dei Mattafix però non è quello di raccogliere denaro.
«Crediamo nel potere della musica di veicolare messaggi. Vogliamo che attraverso il nostro nuovo disco la gente si svegli e si renda conto di ciò che sta realmente accadendo», spiega Marlon.
Come è maturata la vostra svolta politica?
«Sia io che Preetesh seguivamo la tragedia del Darfur già dal 2003. Ma dopo aver soggiornato nell’estate dello scorso anno in Sud Africa, a Johannesburg, dove abbiamo registrato gran parte del disco, siamo entrati in contatto con alcuni attivisti locali, venendo a conoscenza della vera proporzione di questa catastrofe. E’ stato come vedere le cose da un’altra prospettiva, molto più toccante e coinvolgente. In Darfur c’è la più alta concentrazione al mondo di morte e sofferenza. Preetesh leggeva ogni giorno i giornali locali. Io scrivevo i testi. E’ stato un’evoluzione naturale».
In effetti, i vostri testi sono carichi di un impegno che fa pensare persino a musicisti degli anni ’60 e ’70...
«Come per il Ruanda, anche la tragedia del Darfur era preventivabile. Se solo i governi del passato avessero fatto maggiore pressione sulla comunità internazionale, migliaia di morti si sarebbero potuti evitare. Solo che la gente non conosce bene i fatti e quando si organizzano eventi benefici si è più mossi da compassione che da una vera voglia di cambiare le cose. Io credo che la musica possa fare molto. Anzi, noi musicisti abbiamo il dovere di stimolare un impegno. Siamo i diretti discendenti per esempio di chi, un secolo fa, suonando blues si batteva per la libertà del proprio popolo».
Quali sono in questo senso gli artisti che sentite più vicini?
«Jimi Hendrix, Nina Simone, Jimmy Cliff, i Radiohead, Bob Marley. Mia madre era una sua fan, aveva tutti i suoi dischi. Marley registrò Exodus in uno studio a pochi passi da casa sua. Stimiamo molto anche Damon Albarn. E’ stato molto triste vedere che la marcia da lui organizzata a Londra contro la guerra in Iraq non ha avuto buon fine. Ma non per questo bisogna arrendersi».
In un Shake ya limbs, paragonate la guerra in Iraq addirittura a quella in Vietnam...
«Credo che all’origine della guerra in Iraq ci siano le stesse menzogne di quella in Vietnam. Siamo rimasti molto infastiditi nel sapere che gran parte delle tasse nel Regno Unito, anche quelle sui nostri dischi, andavano a finanziare le truppe inglesi».
Avete fiducia nel nuovo primo ministro Brown?
«E’ ancora troppo presto per dirlo. Spero non segua l’esempio di Tony Blair».
Perché avete girato il video del vostro singolo in Ciad?
«Perché volevamo un video forte come il nostro album. E’ stata traumatico. Eravamo in un campo profughi, in piena zona di guerra, tutti spaventati. Mi sentivo responsabile per la troupe che ci seguiva e per tutta l’attrezzatura che avevamo. Ogni volta, che si partiva, sapevamo che si poteva anche non tornare. Sinceramente, non lo rifarei».
(27 settembre 2007)
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